martedì 16 ottobre 2007

L'immagine "GREZZA"

Entriamo nel vivo dell'astronomia digitale esaminando quella che in gergo viene chiamata immagine GREZZA (a volte chiamata anche "raw", vedi nota a fondo pagina, o "light frame").

Come si ottiene un'immagine GREZZA?

Molto semplice: si punta il telescopio sull'oggetto desiderato, si mette a fuoco, si imposta il tempo d'esposizione, eventualmente si posiziona il filtro necessario ed infine si schiaccia il pulsantino del software d'acquisizione. Dopo aver pazientemente atteso lo scorrere del tempo d'esposizione e dei secondi necessari al download dell'immagine dal CCD alla memoria del PC, avremo la nostra immagine RAW sullo schermo.

Nonostante l'aggettivo essa rappresenta quanto di più genuino e puro sia possibile ottenere, in termini d'informazione, di quell'oggetto con la nostra strumentazione e in quel determinato momento. D'ora in avanti, qualsiasi operazione noi andremo ad effettuare sull'immagine GREZZA, inevitabilmente la trasformerà, modificandone in qualche modo la struttura e spesso persino il significato fisico. Per questo è importante averne la massima cura e rispetto, magari salvandone immediatamente una copia in un'area di backup del nostro disco.

Una tipica immagine GREZZA: 3 minuti d'esposizione sul campo intorno a NGC 3718 fatta al 40cm. del telescopio Newton di Cavezzo con la camera CCD Apogee Ap7p. Sono evidenti vari i segnali di disturbo come i pixel più caldi generati dalla mappa termica del CCD, alcuni pixel "freddi" (più scuri), la vignettatura (il centro più luminoso dei bordi) e alcuni segni lasciati da granelli di polvere e da un particolare effetto dei CCD retroilluminati, le "fringes".

Tuttavia l'immagine GREZZA non contiene solamente il segnale emesso dalla sorgente desiderata: contiene purtroppo altri segnali indesiderati ad ognuno dei quali è associato un certo livello di rumore. Attenzione, qui viene il bello: il concetto di segnale e il concetto di rumore. Lo vedremo ampiamente nelle prossime pagine, per il momento ci basti sapere che, oltre al segnale principale proveniente dall'oggetto ripreso, nella nostra immagine GREZZA, ci troveremo:
  • il segnale del BIAS e il segnale termico: questi segnali non li vogliamo sia nel caso noi fossimo interessati a fare solo semplici fotografie, sia nel caso fossimo impegnati a fare delle misure astrometriche o fotometriche. Dovremo quindi eliminarli.
  • il segnale del fondo cielo (quello che i nostri amici anglosassoni chiamano "background") : il cielo fa ovviamente parte di qualsiasi immagine astronomica e non dà particolari fastidi (sempre che non sia eccessivamente luminoso!) ma nel caso di misure astrometriche e/o fotometriche è di estrema importanza calcolarne il valore con la massima precisione possibile. Anche qui, vedremo più avanti le tecniche più utilizzate per la misura del segnale di fondo cielo.
  • Non è finita: tutto ciò che si interpone nel cammino ottico tra il nostro oggetto e il sensore CCD, ne modifica il segnale originale, attenuandone in maniera diversa l'intensità. L'aspetto più evidente è la disuniformità di campo o vignettatura oppure gli inevitabili granelli di polvere che possono depositarsi sui filtri o sulle finestre di protezione del CCD. Ma esistono anche disuniformità più subdole come la differente sensibilità alla luce da fotoelemento a fotoelemento. Tutti questi problemi li risolveremo con quello che normalmente viene chiamato FLAT FIELD.
Questi segnali indesiderati (attenzione alla terminologia! Li ho proprio chiamati "segnali indesiderati" e non "rumori") non esistevano ai tempi della fotografia su pellicola, fatta eccezione per la vignettatura e i vari difetti di pellicola) ma al giorno d'oggi diventano importanti anche per chi utilizza in campo astronomico normali camere DSLR e persino webcam perchè sono disturbi tipici delle camere digitali, si tratti di CCD o CMOS non importa.

lunedì 15 ottobre 2007

Più strumenti in uno

Abbiamo visto che l'immagine digitale consiste in una matrice di elementi detti pixel ai quali viene assegnato un valore numerico. La posizione di ogni pixel è univocamente determinata dalle sue coordinate rispetto ad un'origine, esattamente come avviene in un sistema piano di riferimento cartesiano.
Il valore numerico associato ad ogni pixel ha poi un'altra importante caratteristica: adottando opportune cautele, attraverso calibrazioni e correzioni che vedremo in seguito, esso rappresenta un valore proporzionale al numero effettivo di fotoni che vengono emessi dalle sorgenti di luce inquadrate.
Queste sono proprietà straordinarie che trasformano la nostra camera CCD in qualcosa di ben più potente di una semplice fotocamera: insieme alla camera CCD abbiamo acquistato almeno altri due strumenti: un misuratore astrometrico e un fotometro! Prima dell'era digitale questi erano strumenti quasi impensabili per gli astronomi dilettanti, vedi l'immagine sopra di un vecchio microdensitometro utilizzato per le misure astrometriche e fotometriche sulle latre fotografiche(Courtesy University of Cambridge - Institute of Astronomy).
Oggi questi costosissimi strumenti sono oramai obsoleti nonch'è meno precisi se confrontati con lo studio di un'immagine digitale attraverso opportuni software di analisi numerica.
I giovani astrofili spesso non sono pienamente consapevoli della strumentazione che hanno a disposizione e del sostanziale contributo che potrebbero dare alla ricerca scientifica con una camera CCD, qualche filtro e tanta, tanta passione. Spesso ci si limita purtroppo a fare tante fotografie tutte simili di oggetti celesti più o meno affascinanti: ricordo anch'io l'entusiasmo nel vedere piccole galassie e nebulose con poche decine di secondi d'esposizione utilizzando una delle primissime camere CCD commerciali della californiana SBIG, la ST4 montata al fuoco diretto del 40 cm. dell'Osservatorio di Cavezzo. Erano i primi anni 90, oggi si sono fatti passi da gigante e accanto a tanti bravissimi astrofili specializzati nell'imaging, vi sono anche alcuni astronomi dilettanti che contribuiscono a raccogliere dati a volte importantissimi per le ricerche dei professionisti.
E' fondamentale che tutti, anche gli astrofili che si dilettano nel fare semplici fotografie, siano consapevoli che per mano hanno uno strumento che potrebbe fare molto ma molto di più...

domenica 7 ottobre 2007

Campionamento e potere di separazione

Dimentichiamoci per un momento di tutte le problematiche relative al seeing e alla qualità delle ottiche e ragioniamo esclusivamente su basi teoriche: una delle prime cose che si imparano quando si vuole acquistare un telescopio è il cosidetto Limite di Dawes:

a" = 115/D

dove a" è l'angolo minimo risolvibile o minimo dettaglio osservabile in arcosecondi, 115 è una costante che si applica in caso di sistemi ottici perfetti (costante di Dawes) e D è dell'obiettivo in millimetri. E' d'uso pratico utilizzare 120 come costante di Dawes, anzichè 115, in quanto quest'ultimo valore si riferisce nel caso teorico di ottiche perfette.

Questa semplicissima formula è una diretta conseguenza di un fenomeno ottico ben conosciuto: la diffrazione. Qualsiasi fenomeno fisico di tipo ondulatorio, come il suono o le onde elettromagnetiche come la luce, subisce fenomeni d'interferenza quando passano attraverso una fenditura o ad un foro.
Una situazione del tutto analoga si verifica nel caso in cui un fascio di luce parallelo proveniente da una sorgente puntiforme viene fatta focalizzare nel piano focale di un sistema diottrico o di uno specchio parabolico. In questo caso non si avrà un punto immagine, ma un dischetto circondato da anelli alternativamente chiari e scuri, ossia una figura di diffrazione. In realtà si tratta dell'immagine miniaturizzata dell'obbiettivo: normalmente gli obbiettivi sono circolari, ma se, per ipotesi, un ottico si divertisse a costruire una lente o uno specchio a sezione quadra l'immagine di una stella sul piano focale ne riprodurrebbe le fattezze divenendo essa stessa quadrata!

Anche in ottime condizioni atmosferiche è molto difficile vedere oltre il primo anello brillante; anzi, riuscire a notare quest'ultimo è indice di una buona fattura dell'obbiettivo: solo se le superfici ottiche sono perfettamente liscie, ovvero con asperità che non superano la grandezza di 1/4 della lunghezza d'onda della luce incidente, si può avere la possibilità di osservare la figura di diffrazione.
Per determinare il potere di separazione di uno strumento ottico occorre determinare la grandezza di questa figura di diffrazione: il raggio lineare a del primo minimo (l'anello scuro tra la centrica e il primo anello luminoso) è dato dalla formula:

a = 1.22 · l / D

con l la lunghezza d'onda, D il diametro dell'obbiettivo e 1.22 è una costante.
Per esprimere il valore in secondi d'arco, occorre moltiplicare per 206265 (i secondi d'arco contenuti in un radiante):

a'' = (1.22 · l · 206265) / D

Se esprimiamo tutto in millimetri e attribuiamo a l il valore al quale l'occhio è maggiormente sensibile (circa 0.56 micron) otteniamo la nota espressione:

a'' = 135 / D

chiamata Limite di Rayleigh.

Tuttavia, se consideriamo che nella figura di diffrazione l'85% della luce si concentra nella centrica, e che il rimanente va a cadere sugli anelli brillanti — che usualmente non si vedono salvo, al limite, il primo — è possibile nella pratica guadagnare un 15% sul valore minimo di separazione; in tal caso l'espressione precedente diviene:

a'' = 120 / D

chiamata appunto Limite di Dawes.

Teniamo presente che si tratta di un potere di separazione angolare più che un potere di risoluzione, particolarmente efficacie nel caso di dover distinguere due stelle di eguale colore ed intensità luminosa. Vedremo che non è esattamente quello che normalmente intendiamo come potere risolutivo, ovvero la capacità di discernere i particolari più piccoli di un oggetto.

Esempio: il telescopio C14 ha un diametro di 355 mm. Il suo potere risolutivo secondo la Legge di Dawes è di 115/355 = 0.34 secondi d'arco.

Attraverso le regole del campionamento abbiamo visto che per risolvere "un dettaglio nel piano bidimensionale" della nostra immagine occorrono almeno 4 fotoelementi per ciascuna dimensione, quindi il lato di ciascun fotoelemento quadrato deve sottendere 0.34/4 = 0.085 secondi d'arco. Purtroppo non è possibile cambiare a piacere le dimensioni dei fotoelementi del nostro sensore (a parte l'utilizzo del binning con il quale possiamo solo ingrandirli).

Possiamo però facilmente agire sulla focale del telescopio.

Se indichiamo con d la dimensione del fotoelemento, che focale occorre per ottenere il campionamento desiderato C = 0.085? Dalla relazione sul campionamento è semplice ricavare la formula:

Esempio: la fotocamera Audine monta un sensore KAF-0401E della Kodak composto da 768 x 512 fotoelementi quadrati da 9 micron di lato. Che focale occorre utilizzare per ottenere un campionamento di C = 0.085 secondi d'arco? L = 206265 (0.009/0.085) = 21840 mm. Il che equivale a lavorare con un'apertura f =L/D = 21840/335 = 65.2 ! Utilizzando invece la webcam Philips Toucam Pro con fotoelementi da 5.6 micron la focale necessaria diventa di circa 14700 mm e la corrispondente apertura diverrà f = 44 .

Ma sono davvero necessari dei campionamenti e delle aperture così spinte per lavorare in alta risoluzione? Proviamo a vedere un esempio reale messoci gentilmente a disposizione da Giorgio Mengoli, un bravissimo astrofilo dedicato da anni all'alta risoluzione.

15.03.2007 Saturno: webcam Toucam Pro (15fps)/ S.C.280mm / IRcut / Barlow AE-3X / Courtesy G. Mengoli

La straordinaria immagine di Saturno visibile qui sopra (probabilmente è difficile ottenere di meglio con la stessa strumentazione) è stata ottenuta in un piccolo paese della bassa pianura modenese, San Felice s/P (Modena) con una webcam Philips Toucam Pro applicata a un Schmidt-Cassegrain C11 Celestron®. Il C11 è un 280 mm di diametro a f/10: in questo caso è stata applicata una Barlow 3x che l'ha portato a f/30. Che campionamento e che focale equivalente è stata utilizzata per realizzare questa foto? La lunghezza focale equivalente si calcola facilmente con 280x30=8400 mm. e conseguentemente il campionamento, tenendo conto che la Toucam Pro ha fotoelementi quadrati di 5,6 micron di lato, sarà C=206265·(0.0056/8400)=0.14 secondi d'arco per fotoelemento.

Il limite di Dawes in questo caso ci dice che può risolvere stelle o particolari con una separazione angolare di 0.4 secondi d'arco. Secondo il criterio del campionamento dovremmo lavorare con C = 0.4/4 = 0.10 secondi d'arco per fotoelemento, un valore quindi del tutto confrontabile con quello utilizzato da Mengoli. E questo trascurando i fattori (peggiorativi!) del seeing e delle ottiche e dei possibili errori nella messa a fuoco.

Il potere di separazione non tiene comunque in considerazione altri effetti che possono in alcuni casi addirittura migliorare le capacità visive dei nostri occhi come il contrasto. Esistono infatti delle testimonianze sia visive che oggettive che ad es. è possibile osservare l'ombra di un satellite di Giove (Europa 0,6") con un 80 mm (quindi con un potere di separazione teorico di soli 115/80 = 1,4"). In tali condizioni favorevoli di contrasto (ombra nera e netta di un satellite sulla superficie luminosa di Giove), il vero potere risolutivo sembra superare di oltre due volte il potere teorico di separazione!

lunedì 1 ottobre 2007

Sfatiamo un mito: il criterio di Nyquist


Harry Nyquist (1889 - 1976)

Per carità... lungi da me l'intenzione di voler mettere in dubbio i risultati di questo straordinario scienziato di origini scandinave. Piuttosto occorre sempre fare attenzione ai tam tam della rete che spesso, anche se inconsapevolmente, deformano in modo brutale la realtà fisica delle cose. Se questo avviene per la fisica rabbrividisco al pensiero di quello che può circolare in politica, economia, ecc...

Con l'avvento dell'era digitale è diventato di fondamentale importanza capire come avviene la digitalizzazione dei segnali: digitalizzare infatti significa discretizzare (o campionare) e discretizzare in genere significa perdere informazioni: un'onda sinusoidale continua, es. un'onda sonora, diventa un'onda seghettata, un'immagine con profili morbidi e naturali diventa sgranata e dall'aspetto innaturale.

Il criterio di Nyquist definisce una regola importante per tutte le operazioni di campionamento: esso stabilisce che, dato un segnale, con larghezza di banda finita e nota, la frequenza minima di campionamento di tale segnale deve essere almeno il doppio della sua massima frequenza.

Nyquist pensò al teorema del campionamento riferendosi a dei segnali analogici spaziali monodimensionali come il suono o i segnali elettrici che sono caratterizzati da due grandezze, l'intensità e la frequenza: quest'ultima come l'unica grandezza spaziale in gioco. Una applicazione dei giorni nostri del suo principio è ad esempio la musica digitale con i suoi formati tra i quali il diffusissimo mp3. Non a caso la frequenza media di campionamento di un file mp3 è di 44.1 kHz praticamente il doppio delle massime frequenze udibili dall'orecchio umano (20 kHz) che è il nostro sensore (analogico) eletto alla percezione dei suoni.

Differente però è la questione nel caso di immagini su un piano: oltre all'intensità (luminosità in questo caso) occorre campionare due coordinate spaziali, la larghezza e l'altezza che delimitano la superficie dei fotoelementi: è quindi un problema di segnale analogico spaziale bidimensionale.

Con dei semplici esempi è possibile vedere che in questo caso bidimensionale il criterio di Nyquist in realtà a noi astronomi dilettanti ci sta un po' stretto...

Primo caso: il campionamento è uguale al potere risolutivo dell'ottica (esempio: il disco stellare ha un diametro di 4" e il campionamento è di 4" per fotoelemento).
Il disco stellare, in giallo, può essere esattamente inscritto nel perimetro del fotoelemento (sopra) oppure cadere esattamente al centro dell'intersezione di 4 fotoelementi (in basso). Come è possibile vedere a destra del segno uguale, nella rappresentazione dei pixel che compongono la relativa immagine digitale, la forma del disco stellare è indistinguibile in entrambi i casi e a maggior ragione è impossibile avere una separazione ottica di due oggetti.

Secondo caso: il campionamento è pari alla metà del potere risolutivo dell'ottica ovvero soddisfa il criterio di Nyquist.
Il disco stellare può cadere esattamente al centro di un fotoelemento coprendo in parte i 6 fotofotoelementi adiacenti oppure cadere esattamente sull'intersezione di quattro fotoelementi. Per quest'ultimo caso, come è possibile vedere nella rappresentazione dell'immagine digitale, il disco stellare non appare ancora distinguibile come non appaiono separabili i due oggetti posti al limite della risoluzione ottica. Il primo caso invece è più favorevole anche se la separazione appare ancora ambigua.

Terzo caso: il campionamento è pari ad 1/4 del potere risolutivo delle ottiche (esempio il disco stellare ha un diametro di 4" e il campionamento è di 1" per fotoelemento.
Sia che il centro del disco stellare coincida con il fotoelemento, sia che coincida con l'intersezione di 4 fotoelementi, la forma circolare e la separazione degli oggetti appare inequivocabilmente distinguibile.

In sostanza, il miglior campionamento per registrare un segnale spaziale bidimensionale come può essere appunto un'immagine, è pari ad 1/4 del segnale minimo (nel nostro caso stabilito dal potere risolutivo) che possiamo rilevare con le nostre ottiche.

Ma, ahimè, non è finita qui: noi "poveri" astronomi dilettanti non raggiungeremo mai i limiti teorici dati dalle ottiche dei nostri seppur perfetti telescopi. Il nostro limite è il cielo, ovvero il seeing direttamente misurabile con la FWHM di una stella campione.

Dunque, la miglior camera CCD o CMOS per il nostro telescopio sarà quella che risolverà il seeing per almeno 1/4 della sua dimensione spaziale (FWHM). Purtroppo, o per fortuna, il seeing oltre a dipendere fortemente dal luogo d'osservazione, non è una costante del luogo ma subisce parecchie variazioni anche nell'arco di una sola notte. Dobbiamo quindi ragionare per "seeing medio" cioè il seeing che mediamente ci possiamo aspettare durante una serata d'osservazione nel nostro sito.

Conoscendo il seeing medio è possibile impostare una tabella d'uso pratico

Ora, possiamo vedere che, proseguendo l'analisi dell'esempio precedente dell'Osservatorio di Cavezzo, considerando per esso un seeing medio di 3.5 arcosecondi, il campionamento ideale diverrebbe in questo caso di 0.875 arcosecondi/fotoelemento. In realtà abbiamo un campionamento di 2.24 arcosecondi/fotoelemento quindi mediamente si lavora sottocampionati di almeno due volte e mezzo! Quando invece al fuoco Newton si monta la camera CCD Audine con fotoelementi da 9 micron, si raggiunge il campionamento quasi perfetto, essendo di 0.840 arcosecondi per fotoelemento.